Importanti venti di novità soffiano sul comparto della frutta secca italiana e la candidano a diventare una sorta di dried-fruit valley del sud-Europa.
Mentre esplodono i consumi con vendite che quest’anno si sono assestate a 625 milioni di euro (+9,4% sul 2015) per oltre 52mila tonnellate di prodotto (+4,4%), il comparto – che pure è lanciato a cavalcare l’onda di questo boom – si rivela impostato su due velocità, una a monte e una a valle della filiera.
Da un lato, infatti, il fronte commerciale spinge per calcare l’onda. È recentissima la nascita del colosso della frutta secca nato dalla joint-venture tra Besana e Noberasco che hanno costituito un consorzio tra imprese con l’obiettivo di promuovere sinergie sugli acquisti, sui processi di specializzazione produttiva, e sullo sbocco nei mercati mondiali.
Tuttavia, sulla scia del boom dei consumi di questi prodotti, nuovi player potrebbero entrare nel settore, come, ad esempio, la Orsero spa che punta alla quotazione in borsa entro febbraio dopo l’approvazione dell’operazione di business combination con Glenalta. Nel corso della presentazione dell’operazione, infatti, la presidentessa del gruppo, Raffaella Orsero, ha manifestato l’interesse ad aprirsi a nuovi settori come quello della frutta secca. “Degli 80 milioni apportati da Glenalta – si legge in un’agenzia Reuters – 25 milioni saranno utilizzati per acquisire gli strumenti partecipativi, mentre fino a 55 milioni saranno utilizzati per acquisizioni e investimenti finalizzati, ad esempio, a consolidare il mercato di riferimento o espandersi in settori adiacenti, come quello della frutta secca”.
D’altro canto anche sul fronte produttivo si assiste, effettivamente, ad una spinta all’espansione degli areali, come ad esempio per il nocciolo che punta ad arrivare ai 90mila ettari (+30%) nei prossimi sette anni o per il mandorlo che tra il 2014 e il 2016 è passato da 54mila ettari di superfici coltivate alle circa 60mila di quest’anno o, ancora, per le noci che in Romagna rappresentano una delle alternative più remunerative per la riconversione degli impianti, oggi poco redditizi, di drupacee.
Nel settore primario, però, rappresentano un freno importante alla nascita di una vera e propria dried-fruit valley sud-europea (che riporti l’Italia al suo ruolo di leader mondiale che ha detenuto fino ad una cinquantina di anni fa), innanzitutto l’atomizzazione produttiva che si fa fatica a superare; poi la mancanza di un catasto aggiornato che dia una misura precisa di superfici e volumi e, non da ultimo, il problema delle contraffazioni dei prodotti di eccellenza che fanno ‘gonfiare’ i volumi di frutta secca made in Italy in commercio andando a limare significativamente le liquidazioni ai produttori.
“Rispetto agli altri comparti del settore ortofrutticolo – spiega Alessandro Annibali , presidente di New Factor nonché presidente della Federazione emiliano-romagnola di Confagricoltura per la frutta secca – stiamo vivendo un bel periodo anche grazie alla capacità che abbiamo avuto, nel recente passato, di comunicare il valore salutistico e nutrizionale di questo prodotto che oggi non è più consumato come un frutto da fine pasto ma vive una nuova vita anche come snack o come prodotto da prima colazione grazie anche alla spinta del canale Horeca. Certo rispetto ai colossi produttivi del mercato globale, come la Cina, gli Usa, la Turchia o l’Iran, i nostri volumi sono molto piccoli. Ma molto si può fare per migliorare il comparto”.
Una delle prime sfide che il settore ha davanti è quello di fare un nuovo censimento delle colture di frutta secca nostrane che, nella banca dati di Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, è aggiornato al 2011 ma si basa su dati raccolti nel 2007 in occasione dell’inserimento della frutta a guscio tra i settori di intervento della Comunità europea. Aggiornamenti che, come ci spiega Maurizio Piomponi responsabile dell’ufficio Domanda Unica e OCM di Agea “Vengono fatti su un campione di impianti del 10% così come previsto dalla normativa”
“L’aggiornamento del catasto è impresa tanto necessaria quanto difficile – commenta Virgilio Marconcini, produttore di castagne dell’Emilia-Romagna e membro del tavolo castanicolo istituito presso il Mipaaf – anche perché occorrerà mettere una linea netta di demarcazione tra gli alberi da frutto e quelli da legna. Distinzione che oggi non è così netta poiché, secondo quando stabilito all’interno dello stesso tavolo ministeriale castanicolo, ad esempio, è sufficiente che ci siano 10 alberi di castagno da frutto per ettaro per definire tutto il bosco un castagneto da frutto e accedere quindi alle misure Ocm”.
Questa priorità è stata sottoposta da Annibali alla Federazione nazionale sulla frutta secca con la richiesta della convocazione di un tavolo ad hoc. “Una banca dati aggiornata – chiarisce Annibali – è il primo passo per procedere alla riorganizzazione della filiera con l’intento di dare valore a dei prodotti tipici del Mediterraneo. Abbiamo tutte le caratteristiche per fare concorrenza a Paesi come il Cile, ad esempio, che produce 80mila tonnellate di noci l’anno con 20mila ettari. Se la Turchia produce mezzo milione di tonnellate l’anno, non vedo perché non possiamo farlo anche noi. Dobbiamo solo mettere in piedi un sistema virtuoso che leghi l’industria al settore primario, alla produzione e al mondo della ricerca”.
Una delle prime conseguenze della mancanza di informazioni dettagliate su superfici e volumi prodotti, è quella di mettere le nostre produzioni di eccellenza in condizione di soccombere di fronte alla contraffazione commerciale, come nel caso del celeberrimo nonché pregiato, pistacchio di Bronte.
Secondo una stima prudenziale, il mercato dei “falsi pistacchi di Bronte”, come anticipato dal Corriere Ortofrutticolo (leggi news), avrebbe raggiunto proporzioni abnormi fino ad arrivare ad un rapporto di uno a tre. Ossia per ogni chilo di pistacchio di Bronte in circolazione, ce ne sarebbero almeno tre contraffatti, circa 30mila quintali di ‘fake’ che gonfiano il mercato e fanno allargare la forbice tra quanto guadagna il produttore (13 euro al chilo di frutta con guscio) e quanto viene venduto sugli scaffali: 50 euro al chilo per la prima qualità di prodotto sgusciato e pelato destinato all’export e circa 40 euro per quello destinato al canale della trasformazione nelle pasticcerie o nei laboratori artigiani nazionali.
Mariangela Latella